“RadioLibrArte” la rubrica a cura di Giacinto di Pietrantonio in cui si parla di libri d’arte e/o intorno all’arte.

Curioso fenomeno. È iniziato il lockdown anche se nessuno l’ha proclamato. O almeno così sembra. Senza rendercene troppo conto stiamo tornando alla tana, e le visite sono di nuovo rare e poco gradite. Signore delle pulizie e corrieri vengono accolti freddamente. Naturalmente potrebbe trattarsi di coazione a ripetere: i tre mesi di segregazione domestica della primavera scorsa hanno lasciato il segno. Ma che tipo di segno hanno lasciato? Sui davanzali di alcune finestre si notano ancora bandiere imbruttite dal tempo e qualche striscione ricavato da vecchie lenzuola con sopra scritto “andrà tutto bene”. Una rassicurazione per bambini, di nessuna utilità neppure per loro, come nei film americani in cui tutti ripetono “I love you” e “I love you too” che non significano niente, o appena un “ciao” buttato lì distrattamente. I segni psichici sono più difficili da decifrare. I malati psichiatrici più gravi hanno reagito in modi diversi: con sorprendente indifferenza o con più acute manifestazioni di disagio. Il vasto (vastissimo) mondo delle patologie diciamo così intermedie, per esempio depressi lievi e cronici, ansiosi, ipocondriaci, narcisisti (se ancora è possibile distinguerne i diversi gradi), fobici, come hanno reagito e come stanno reagendo? In fondo come tutti gli altri? Ognuno in modo diverso?

 

La realtà comune a tutti è che il mondo può fermarsi, non è così indifferente a tutto come credevamo. Non si ferma, anzi non rallenta di un metro la sua corsa, neppure quando il nostro destino individuale si compie. Quando però la morte si conta in centinaia di bare trasportate su decine di camion militari allora si capisce che il mondo può fermarsi all’improvviso. Il distanziamento e la maschera ci spingono indietro nel tempo, antichi rimedi probabilmente incisi nel nostro DNA, simile all’istinto della lepre che fugge davanti al cane.

Ora che stiamo piombando di nuovo nell’emergenza siamo come rassegnati, ci comportiamo come se fosse già lockdown, chiusi in casa con la nostra scorta di mascherine (detestando tutti i diminutivi faccio fatica a scrivere questa orrenda parola, parente stretta dell’ancor più orribile telefonino). La lingua ci segnala che insieme all’aspetto depressivo viaggia anche quello regressivo. Le conseguenze ci saranno, lo pensa anche chi è convinto che non cambierà niente se non l’ineluttabile. Sono in discussione i nostri stessi confini, la nostra capacità di interagire e di modificare, già quasi spenta prima della pandemia. Possiamo seguire i nostri umori, le nostre sensazioni più oscure, il nichilismo (che non è una scuola filosofica ma uno stato d’animo che attraversa i secoli e tutte le culture), la ferocia iconoclasta, la stupidità, l’incapacità di riflettere e meditare. Allora si può dire: ma chi se ne frega se chiudono i pub e i bar di Trastevere! E le discoteche con tutti i loro addetti. E i giornali, che tanto sono chiacchiere al vento. Inoltre: siamo troppi, su questa terra, e le epidemie ce lo ricordano concretamente.

 

Per analizzare questi pantani mentali mi sono rivolto a un testo che da questi dettagli cerca di risalire a una riflessione profonda: Empatie ritrovate, di Ugo Morelli, edizioni San Paolo. “Riconoscere nell’epidemia un fenomeno globale e controverso è una delle prime mosse necessarie per la consapevolezza e l’azione. I fattori coinvolti in un’epidemia come quella causata da Covid-19 sono molteplici: i cambiamenti climatici che modificano l’habitat dei vettori animali dei virus; la sempre maggiore intrusione umana in un numero di ecosistemi vergini; la sovrappopolazione; la frequenza e rapidità di spostamento delle persone.